Il lago dei Cigni – Milano, 1987–1993
10 Dicembre 2019
Sorto sulle ceneri del vecchio Petrovskij nel 1825, il Bolshoi di Mosca è, ancora oggi, uno dei più importanti teatri al mondo, rinomato soprattutto per il balletto classico. Il 20 febbraio 1877 ospitò la prima assoluta del Lago dei Cigni, musicato da Pyotr Ilyich Tchaikovsky con la coreografia di Julius W. Reisinger. Fu un fiasco totale, così come le quarantadue riproposizioni successive. Il grande compositore russo non vide mai la sua opera applaudita dal pubblico: morì infatti nell’autunno del 1893, due anni prima che i coreografi Marius Petipa e Lev Ivanov riallestissero il Lago dei Cigni per l’avvio della stagione teatrale di San Pietroburgo, col contributo essenziale del musicista italiano Riccardo Drigo. Il rimaneggiamento operato dai tre salvò la composizione, trasformandola in un classico imperituro del balletto. Anche la famosa versione del 1966, eseguita da Rudolf Nureyev in coppia con Margot Fonteyn, si rifà alla base coreografica del trio Petipa-Ivanov-Drigo.
Dobbiamo ammettere una cosa. Non siamo stati in grado di scoprire quante volte il Lago dei Cigni sia stato rappresentato in un altro celebre teatro, ossia La Scala di Milano. Non ci siamo riusciti probabilmente perché il balletto è stato riproposto innumerevoli volte, tante da far risultare priva di senso la nostra domanda.
So, però, qualcos’ altro. In quella stessa Milano, un po’ più a ovest, un secondo illustre teatro cittadino ha messo in scena il Lago dei Cigni di Tchaikovsky con regolarità e successo per almeno sei anni, dal 1987 al 1993. Incluso il tragico finale.
Non ce ne voglia l’intero corpo di danza, ma questa è la storia – l’avrete capito – di un primo ballerino, un étoile per il quale la maglia rossonera è sempre stata, allo stesso tempo, l’amore eterno di Odette e l’ingannevole seduzione di Odile. L’estasi e la rovina.
Questa è la storia di Marcel, per tutti “Marco”, Van Basten.
Marco Van Basten arriva a Milano nell’ estate del 1987. Viene dall’Ajax di Cruijff ed è costato due spiccioli rispetto all’altro tulipano Gullit, acquistato da Berlusconi nello stesso periodo. Il suo metro e ottantotto ha cominciato a torturare le caviglie già con la maglia dei lancieri, ma Arrigo Sacchi, da sempre integralista del collettivo al di sopra dei singoli, accetta i rischi del caso. La squadra inizia male: pochi punti in classifica, gioco che stenta. Van Basten in realtà va a segno già alla prima giornata ma, con altrettanta puntualità, la caviglia cede. Sembra un incantesimo del malvagio Rothbart; disgraziatamente però, dura ben oltre le ore del giorno. Per Marcel detto Marco si tratta infatti di buio pesto: intervento chirurgico necessario, sei mesi fuori dal campo. Per inciso, gli avversari diretti hanno pure Maradona.
Ma come detto, Sacchi è uomo di fede e una simile devozione alla fine premia. Durante la lunga assenza del primo ballerino, la squadra si trasforma, esprimendo un gioco sempre più fluido e spettacolare, mai visto prima in Italia. Al suo rientro, la sfida col Napoli di Diego è punto su punto.
Si sostiene spesso che i gravi infortuni trasformino il fisico e il modo di giocare dei calciatori. Appena rientrato però, Marco Van Basten continua imperterrito a danzare sulle punte perché conosce un unico tipo di gioco, un numero finito e ben selezionato di movenze: quelle perfette. E non è tanto il gol al Napoli, che di fatto consegna lo scudetto ai rossoneri. È proprio l’essere in campo, la tensione drammatica insita in ogni gesto, lo spazio che quasi si addensa e dilata quando è occupato dal corpo flessuoso del danzatore.
Anche il mondo intero se ne accorge. Monaco di Baviera, 25 giugno ’88. Nell’ultima partita della sua storia, l’Unione Sovietica guarda Van Basten involarsi fin quasi sulla linea di fondo e sfoderare un destro al volo di cui ancora oggi siamo restii ad ammettere la pensabilità. Qualcosa che può riuscire solo a chi è tutt’uno col campo, col gioco e forse addirittura con Dio.
Nelle stagioni successive, la “Scala del Calcio” propone con costanza il Lago dei Cigni, spettacolo di punta in cartellone. Il crudele incantesimo sembra spezzato già a dicembre: le reti in campionato si avvicinano alla doppia cifra, arriva addirittura il Pallone d’Oro. Ma è soprattutto la ritrovata Coppa dei Campioni a offrire le più eleganti serate di gala. Dopo il mezzo pasticcio contro la Stella Rossa infatti, il Milan vola, trascinato dalle 10 reti di Marco Van Basten. Il 5-0 nella semifinale col Real Madrid passa alla storia. I quasi 90.000 milanisti al Camp Nou per l’ultimo atto contro lo Steaua Bucarest, sono, a detta dello stesso Van Basten, una delle più grandi emozioni della sua carriera. Inutile dire che Supercoppa Europea e Coppa Intercontinentale, aggiuntesi qualche mese dopo, rappresentano la più degna overture per il secondo Pallone d’Oro di seguito.
Sacchi lascia al termine della stagione ’90/’91. Al suo posto arriva Fabio Capello. La squadra si scopre forse meno estrosa, ma, se possibile, ancora più solida. E il Cigno non manca un solo palcoscenico. I suoi 25 gol contribuiscono a regalare al Milan un scudetto da imbattuti, primo di una serie di tre consecutivi. Van Basten si laurea capocannoniere, segnando, tra gli altri, tre gol all’Atalanta in soli sei minuti. Il terzo Pallone d’Oro a dicembre ’92 è quasi una formalità, nonostante l’esclusione del Milan dalla Coppa Campioni per i riflettori di Marsiglia un anno prima. Le quaterne messe a segno contro Napoli e Goteborg (con Massaro terzino sinistro!) una conferma di strapotenza. Di dominio assoluto.
Siamo ormai all’ultima scena. Siegfried danza sinuoso con la meravigliosa Odette, i due si giurano amore eterno. Ma il sortilegio di Rothbart torna ad abbattersi su di loro. Forse la fanciulla era Odile e il principe è stato ingannato. Forse è stata la tempesta rovesciata sul lago. Non sappiamo dirlo. Sappiamo che nel pieno dello spettacolo la caviglia cede ancora, questa volta per sempre. Non bastano nemmeno due anni di recupero. Nell’ estate del 1995, dopo l’ultimo tentativo, Marco Van Basten annuncia il suo ritiro, a nemmeno 31 anni. Jeans chiari, giubbotto scamosciato. Qualche giro di campo. Poche, misurate parole.
Carmelo Bene, non esattamente ballerino, ma grande attore teatrale disse che «il lutto per il suo ritiro anticipato non si è estinto e mai si estinguerà».
Ci permettiamo di aggiungere che lo stesso sarà per il suo ricordo. Soprattutto, per quell’idea di bellezza che alberga dentro di noi, della quale Marcel detto “Marco”, primo ballerino, rappresenta ogni giorno fonte insostituibile, condizione della sua stessa esistenza.
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