L’eccellenza della normalità: il tuttocampista Gaizka Mendieta
27 Marzo 2020
C’è stato un tempo, non molti anni fa, in cui il nostro campionato era il più illustre e prestigioso torneo del continente. Fucina inesauribile di talenti e ricettacolo di campioni, la Serie A era il punto d’arrivo per ogni giocatore che aspirasse ad una carriera decorata e memorabile.
Siamo nel pieno dell’estate 2001, periodo delle spese folli delle grandi società per rafforzarsi e indebolire gli avversari, sottraendogli gli elementi di spicco. È il tempo in cui la Roma di Totti, Batistuta e Montella, scudettata, preleva dal Bari un ragazzino promettente, tale Antonio Cassano; in cui il Milan di Maldini e Shevchenko, reduce da un deludente sesto posto, sborsa quasi 200 miliardi di lire per Pirlo, Rui Costa e Inzaghi, acquistandolo dalla Juventus, che a sua volta, con la fresca liquidità economica derivata da Super Pippo e dalla cessione di Zidane al Real, fa incetta di campioni, prelevando Buffon e Thuram dal Parma, Salas e Pavel Nedvěd dalla Lazio.
La vendita della furia ceca scatena l’ira dei tifosi biancocelsti, che, per ribattere al tricolore dei cugini, chiedono alla proprietà uno sforzo economico non indifferente. Il presidente Cragnotti non è sordo alle richieste e risponde comprando il fluidificante Fiore, il granitico colosso Stam e, soprattutto, Gaizka Mendieta, semplicemente il centrocampista più ambito d’Europa, tra i più forti in circolazione, riuscendo a soffiarlo niente meno che al Real Madrid; esempio calzante del fascino irresistibile che esercitava il nostro campionato all’epoca del Millennium Bug.
Mendieta, dal destro al fulmicotone e dalla progressione spaventosa, era il capitano del Valencia di Héctor Cúper, che aveva impressionato tutti negli anni appena trascorsi. L’impetuosità, lo strapotere con cui Gaizka aveva annichilito il centrocampo di tutte le squadre spagnole ed europee, guidando il suo Valencia alla conquista di una Copa del Rey, una Supercoppa di Spagna e a ben due finali consecutive di Champions League, lo rendevano uno dei migliori giocatori nel suo reparto, protagonista inoltre di un lodevole record. Non per caso, per favoritismo o per una semplice coincidenza si viene infatti nominati, per due volte di seguito, miglior centrocampista della Champions League (edizioni 1999-00 e 2000-01); non ci sono riusciti Xavi e Iniesta, Gerrard e Lampard, Pirlo e Zidane.
Gaizka Mendieta è l’unico calciatore ad avere ottenuto, sinora, questo incredibile riconoscimento. Perché se nel torneo ci si è dimostrati assolutamente decisivi, non è necessario vincere il trofeo per agguantare tale traguardo, e questo la UEFA lo sa bene. Poco importa, se la prima volta il Real Madrid si è mostrato troppo superiore al Valencia, o se, la seconda volta, l’impietosa lotteria dei rigori ha premiato il Bayern Monaco, lasciandoci quell’epica e dolce fotografia di Kahn che abbraccia e consola il rivale Cañizares. Il portiere tedesco, tra l’altro, era stato trafitto da Mendieta dal dischetto ben due volte in partita, sia nei tempi regolamentari che nella sequenza finale. Nulla di sorprendente, perché il penalty è sempre stato una delle specialità di Gaizka. Prima di Perotti e Jorginho, Balotelli e CR7, c’era lui. Tutti a scuola da Mendieta. Rincorsa, tiro potente e preciso, stesso risultato: palla da una parte, portiere dall’altra. La freddezza è sempre stata una delle qualità principali di questo centrocampista autoritario e completo.
D’altronde, se non hai una grande personalità, è difficile che il Mestalla, ambiente caloroso ed esigente, ti accetti come capitano. Eppure, Mendieta era un giocatore umile, che forse non eccelleva prettamente in un fondamentale, ma era capace di far tutto, anzi, di fare tutto bene. Rappresentava, in un certo senso, l’eccellenza della normalità: sapeva portare all’estrema realizzazione tutti gli elementi basilari del gioco del calcio, un dono che, più che una semplice mezzala, ne faceva uno straordinario “tuttocampista”, perfetto nei tempi di gioco e di inserimento, dotato di un’intelligenza tattica sovrumana e di qualità atletiche fuori dal comune, che gli permettevano di essere perennemente in movimento per cercare e smistare il pallone.
Come è possibile tutto ciò? Semplice, a quattordici anni Gaizka Mendieta era una grande promessa del mezzofondo, attività che ha dovuto abbandonare per inseguire il sogno di diventare calciatore. Un sogno divenuto realtà nel momento in cui è entrato nelle giovanili del Castellón, prima squadra di Castellón de la Plana, ridente capoluogo di provincia nella Comunità Autonoma Valenciana, sebbene lui non fosse nativo del posto, ma di origine basca, di Bilbao, terra particolare, fortemente orgogliosa. Una caratteristica che Mendieta ha dimostrato con fierezza in campo, infiammando il Mestalla e capeggiando i compagni in quel Super Valencia di Cúper che ha dominato la scena internazionale a cavallo tra i due secoli, dove Gaizka era fondamentalmente la mezzala destra di un rombo, nel quale la mediana era presieduta dal metronomo Baraja; a sinistra c’era quel Kily González che si sarebbe poi trasferito nella Milano nerazzurra; e sulla trequarti incantava Pablo Aimar, mister fantasia. Ma solo per formalità e statistiche Mendieta era l’interno a destra; in realtà, abbinando corsa e qualità nello stretto e nel lungo, si proponeva tanto come frantumatore del gioco avversario, quanto come primo playmaker della squadra, essendo dotato di una visione di campo che gli consentiva di trovare gli spazi che solo i campioni intravedono.
Se la collocazione tattica nel Valencia non era mai stata un problema, lo stesso però non si può dire nella Lazio di Zoff prima, Zaccheroni poi. 4-4-2, 3-4-3, 4-3-3, in ogni sistema di gioco, tra giocatore e allenatore, non scatta mai la scintilla. A destra ci sono Poborsky e Castroman, in mezzo Dino Baggio, Simeone e Liverani; e Mendieta, dopo una stagione in chiaroscuro, scivola nel dimenticatoio. Sorge spontaneo chiedersi se sia più giusto adattare il fuoriclasse al modulo o viceversa, un quesito di impossibile risoluzione, nato insieme al calcio stesso. Certo che insistere sul proprio sistema di gioco, arrivando a snaturare le caratteristiche dei propri campioni, rischia di essere controproducente, mentre far girare la squadra esaltando le qualità del fenomeno e mettendolo nelle migliori condizioni possibili per manifestare il genio, porta spesso ad ottimi risultati. Pertanto Mendieta non doveva essere un problema, un peso, bensì una risorsa. Così non è stato, ma non importa.
Se è vero che le cose belle durano sempre poco, allora Mendieta, negli ultimi anni valenciani, è stato bellissimo. Come quel gol al Barcellona, nella Coppa del Re, edizione 1999: calcio d’angolo, traversone a scendere al limite dell’area, destro al volo, terrificante e imprendibile, sotto l’incrocio. Gaizka era così: potente, dominante, ma, al contempo, capace di prodezze tecniche quasi ineguagliabili. Come quella rete all’Atletico Madrid, forse il suo gol più bello, in cui riceve palla fuori area, la controlla di petto e di ginocchio, eludendo poi l’intervento di tre difensori con un sombrero di difficoltà altissima e concludendo l’azione con un sinistro al volo sull’uscita dell’estremo difensore.
Ad ammirare tanta bellezza, si rischia di restarne ammaliati e abbagliati, di non uscirne più. E se la storia di Mendieta con Lazio e Barcellona fosse stata vincente e duratura, sarebbe stato troppo, rischiosamente, bello. Allora meglio ricordarlo così, come un giocatore che, nel periodo d’oro della sua carriera, era il direttore di un’orchestra che suonava un calcio sublime e armonioso. Ma Mendieta non ha smesso di suonare, ora lo fa solo in modo diverso. La musica, la sua seconda anima alla pari del calcio, in seguito al ritiro dai campi da gioco da passione si è tramutata in professione. Ora Gaizka infatti fa il deejay, vicino Middlesbrough, dove ha deciso di chiudere la carriera sportiva per iniziarne un’altra, più frenetica e movimentata, che forse gli ricorda quel periodo straordinario in cui, danzando in campo, incantava e deliziava l’Europa. E allora… Musica, Maestro!
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