I 15 argentini meno argentini che abbiamo visto giocare in Serie A
2 Settembre 2021
12. Angel MATUTE Morales

Lungi da noi l’idea di esser tacciati di blasfemia, ma quando s’interroga un tifoso di fede sampdoriana, non ci si sorprenda se il 1997 venga considerato come un nuovo, ideale spartiacque tra l’Avanti Mancini e il Dopo Mancini. Trovare un nuovo messia non è semplice, specie in un ambito dove il monoteismo è merce sempre più rara. L’era Mantovani volge al termine e con il Mancio se ne va l’ultimo ricordo di quella Sampdoria acquistata a metà degli anni ’80, trasformata da comprimaria a protagonista in patria, sino a sfiorare le vette d’Europa. In panchina ha salutato anche Sven-Göran Eriksson che si è portato Mancini alla Lazio. La maglia numero 10 è orfana del suo unico, legittimo e riconosciuto proprietario. C’è bisogno di una scossa per ricominciare a far sognare i tifosi. Per questo, la dirigenza sceglie di affidare la squadra ad un personaggio evocativo come El Flaco: Luis Cesar Menotti, allenatore dell’Argentina campione del mondo nel 1978. In squadra c’è già un pezzo da novanta come Veron, mentre in attacco brilla un giovanissimo Montella al quale viene affiancato il redivivo Klinsmann. Ma a chi dare le chiavi per far partire i giri del motore? La scelta cade sul giovane fantasista dell’Independiente, Angel Morales, che proprio Menotti ha allenato con ottimi risultati nell’ultimo anno. Lo chiamano Matute come il personaggio di un cartone animato e i più diffidenti non vedono questa circostanza come un segnale di buon auspicio. Sarà il carattere dei genovesi, sarà che “a pensar male si fa peccato, ma quasi sempre ci s’azzecca” (cit.), ma l’impatto di Morales con il Luigi Ferraris è tutto fuorché memorabile. Non si pretendeva di avere in squadra un emulo di Mancini, ma qualcuno che fosse almeno degno di portare il suo dieci sulle spalle. Niente di tutto ciò. L’avventura del Flaco parte malissimo, così come quella di Matute che viene prontamente messo sul banco degli imputati di una squadra che non gira. Menotti viene mandato via dopo nove giornate e così anche il suo figlioccio che, comunque, trova il tempo di segnare una rete alla Juventus prima di essere ceduto in Spagna, al Merida, per arrivare all’estate del 1998 che lo riporterà nuovamente in patria.
11. Mauro Esteban NAVAS

Giunge in Italia insieme al connazionale Pineda durante la sessione invernale di spese che Pierpaolo Marino, direttore sportivo dell’Udinese, effettua in Argentina ad inizio 1998 per dare nuove alternative sulle fasce a Zaccheroni. L’obiettivo è quello di far rifiatare l’altra coppia di incursori, questa volta tutta danese, che imperversa sulle corsie laterali: Helveg e Jørgensen. Le premesse, però, rimangono su carta. Se, infatti, Pineda riesce a dare qualche segnale del suo passaggio, lo stesso non riesce a Navas. Il tecnico romagnolo lo butta immediatamente in mezzo alla mischia, regalandogli quindici minuti contro la Fiorentina alla prima di ritorno. Al termine della partita, l’allenatore gli affibbia l’appellativo di “computer” per la mole di cross che riesce a produrre durante il match. Ma sarà soltanto un abbaglio. Dopo un buon esordio al Friuli, Navas riesce addirittura a segnare un gol ad Hernan Crespo nel match di Coppa Italia contro il Parma. Non è un refuso, bensì la classica occasione da raccontare ai nipoti: con i Ducali in dieci per l’espulsione di Guardalben, Valdanito è costretto a difendere la propria porta ed un guizzo di Navas viene tramutato in rete dalla mancata attitudine con i guantoni fra le mani: il suo goffo intervento consente al pallone di finire in rete e a Navas di festeggiare la sua unica marcatura italiana. L’apporto di Navas alla causa bianconera, in sostanza, termina qui. Con Guidolin, l’argentino viene chiamato alla bisogna negli ultimi scampoli di gara ed a fine stagione viene ceduto senza alcun dramma all’Espanyol. Così come accadde per Pineda, anche Navas fu condannato dalla giustizia italiana per avere falsato la documentazione che consentì all’Udinese di tesserarlo con lo status di comunitario. Chissà se racconterà anche questa disavventura ai nipoti.
10. Oscar Alfredo RUGGERI

Cosa ci fa uno degli eroi di Messico ’86 intento a divorar moscioli sulla riviera dorica? Non c’è nulla di strano, visto che quel ragazzo è Oscar Ruggeri, uno degli acquisti di punta dell’Ancona in vista della stagione calcistica 1992-93, la prima in assoluto dei marchigiani in massima serie. Il tecnico Guerini è conscio che sarà dura conservare la categoria, ma in un primo momento circola ottimismo visto che arriva anche Lajos Detari a far coppia con il Condor Agostini in attacco, mentre la difesa è nelle mani di una delle colonne dell’Argentina, ex River Plate, Boca Juniors e Real Madrid. È venuto in Italia per giocarsi le sue chance nelle terre che furono dei suoi nonni, quindi oltre alla componente agonistica vi è anche una consistente matrice romantica a suggellare il matrimonio tra Ruggeri e l’Ancona. Peccato però che, come spesso accade, l’idillio sfumi nel giro di poco tempo. Oscar non assimila al meglio il tatticismo maniacale che viene richiesto ai difensori che ogni domenica scendono in campo negli stadi di Serie A e, ormai ai trent’anni, non certo può eccellere in velocità ed esplosività. La sua stoffa si vede in rare occasioni e con il tecnico iniziano le frizioni: in occasione del match contro la Fiorentina, Ruggeri riesce a contenere il suo connazionale Batistuta. Ma per farlo, si dimentica dei suoi compagni di squadra che, infatti, penetrano nella difesa dorica come coltelli nel burro. Il match finisce 7-1 per i Viola e negli spogliatoi qualcosa s’incrina. In aggiunta, poi, la situazione non propriamente florida delle casse anconetane – il club è fortemente impegnato nella costruzione del nuovo stadio Del Conero – spinge Ruggeri a far le valigie per salpare verso il più ricco Messico ed accettare l’offerta dell’America. Con buona pace dei suoi avi.
9. Leonardo Adrian RODRIGUEZ

Chissà cosa avrà pensato Marcello Lippi, tecnico dell’Atalanta per la stagione 1992-93, quando vide quella chioma selvaggia di capelli fin sulle spalle di Leo Rodriguez spuntare dai cancelli di Zingonia. Di certo l’abito non fa il monaco, ma dopo averne viste di ogni, il tecnico di Viareggio avrà immediatamente capito che sarebbe stata dura cercare di adattare ai propri canoni un’anima libera come quella del fantasista ex Velez Sarsfield. Eppure, c’era da ben sperare. Infatti, Rodriguez era stata una delle più grandi sorprese dell’Argentina durante la Copa America del 1991, vinta con il suo sostanzioso contributo. L’ottimo torneo, infatti, gli valse la chiamata in Europa. Quanto basta per finire nel mirino dell’Olympique Marsiglia, all’epoca vero asso pigliatutto del torneo transalpino. Viene poi girato al Tolone e con i gialloblù diede sfoggio di tutto il suo repertorio: ben dodici reti in campionato insieme a una cospicua quantità di assist. Tuttavia le traversie del club di Tapie portarono Rodriguez a finire nel mirino degli orobici, alla disperata ricerca di un erede di Caniggia. Dopo il fallimento di Bianchezi, arrivarono l’argentino e il colombiano Valenciano. Possiamo solo immaginare lo sguardo del tecnico. Per sua fortuna, in squadra c’erano elementi di gran qualità come Ganz e Rambaudi, necessari a rasserenarsi l’animo. Cosa che, ovviamente, non accadeva quando Rodriguez entrava in campo, vagando senza una minima idea di collocazione: sulla fascia? Non è un esterno. Regista? Nel 4-3-3 non c’era spazio. E quindi? Si spera nella provvidenza e l’unica rete messa a segno in quel campionato, nel quale racimola diciannove apparizioni, fa comunque rumore: il 13 dicembre 1992 segna la rete del pareggio nel derby casalingo con il Brescia. E quello rimane l’unico acuto di una stagione fallimentare. Che però – i misteri della vita – non gli impedisce di vestire l’anno successivo la maglia del Borussia Dortmund.

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