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I 15 argentini meno argentini che abbiamo visto giocare in Serie A

2 Settembre 2021

8. Sergio Fabian ZARATE

Lì dove non arrivano le prestazioni sportive, arriva la fama di colui che suscita i ricordi più dolci della gioventù. Il tutto, grazie alla trasmissione di Mai dire gol che durante la stagione 1992-93 prese di mira l’attaccante argentino dell’Ancona, facendone quasi dimenticare le pessime performance che guastarono almeno dieci domeniche dei tifosi dorici. Soltanto dinanzi alla difesa del Foggia – non propriamente una barriera insormontabile durante l’era zemaniana – riuscì a concedergli una giornata di vera gloria: Zarate, infatti, riuscì addirittura nell’impresa di segnare una doppietta nel 3-0 che i biancorossi rifilarono ai Satanelli il 25 ottobre 1992. El Raton giunse in quell’annata scellerata, la prima in assoluto dell’Ancona in Serie A, insieme al connazionale Ruggeri in quello che, nei progetti del tecnico Guerini, doveva essere il classico mix di esuberanza ed esperienza. Purtroppo per l’allenatore, il progetto fallì miseramente su entrambi i versanti e con la stagione irrimediabilmente compromessa dopo neanche due-terzi di campionato, Zarate fu costretto a tornare nel “suo” Norimberga. Lì dove gli fu concessa maggior libertà di fallire qualche rete, visto che – almeno – riuscì a scagliare ben ventidue palloni in fondo al sacco.

7. Fernando Gaston CORDOBA

L’unico ricordo che Cordoba ha lasciato ai tifosi della Sampdoria, forse, riguarda quel titolo di cronaca che immortalò la sua unica “prodezza” per le vie di Genova: bloccato dalle forze dell’ordine insieme al connazionale Ortega ed al povero Caté, tutti in evidente stato di ebbrezza, i tre si beccarono una denuncia dalle forze dell’ordine per “oltraggio a pubblico ufficiale” ed “ubriachezza molesta”. Se questi sono i suoi unici lasciti memorabili, beh, il resto vien da sé. In quegli anni la Sampdoria vive uno dei suoi momenti più difficili. Mancini è stato ceduto alla Lazio nell’estate del 1997 e colui che ne ereditò la maglia numero dieci, Matute Morales, riuscì soltanto a farsi ricordare per una rete prima di essere rispedito oltreoceano al mittente. La tratta che unisce il capoluogo ligure ad Avellaneda sembra particolarmente calda ed i blucerchiati decidono di lasciare in Argentina il povero Morales e di dare un biglietto per l’Europa a Gaston Cordoba che nel frattempo si era fatto ben notare in patria. La probabilità di fallire un nuovo colpo è minima, ma c’è. E se la legge di Murphy ci ha insegnato qualcosa, i piani dei blucerchiati non potevano che andar peggio, rischiando di sfiorare il tragicomico. In panchina c’è Spalletti che prova a dargli il ruolo del trequartista classico, ma l’arrivo di Ortega fa presagire al talento argentino che, forse, il tecnico toscano non straveda per lui. Eppure, tenta di metterli uno di fianco all’altro e le prime uscite paiono incoraggianti. Purtroppo, però, maturano due cocenti eliminazioni in due giorni: Intertoto e Coppa Italia. Proprio in quest’ultima occasione, Spalletti gli offre la sua unica chance da titolare, ma la sua inconsistenza si rivela in tutta la sua carica masochistica. Da allora, la panchina diventa il suo habitat e con l’arrivo di Platt, Cordoba diventa spettatore pagato in tribuna dei match che i suoi compagni di squadra disputano la domenica. Nel mese di gennaio, dunque, viene rispedito in Argentina dove termina la carriera a trentuno anni. Sbagliare è debito, ma perseverare è diabolico.

6. Sergio Angel BERTI

Sergio Berti in compagnia di Faustino Asprilla sulle tribune dello stadio Ennio Tardini

Non ci fosse stato Juan Sebastian Veron a ridare il lustro del soprannome de La Bruja, avremmo avuto lo stigma della cattiva accezione ogniqualvolta si sarebbe fatta menzione di questo appellativo. Per nostra fortuna, la disastrosa esperienza di Berti in quel di Parma, durante il campionato 1992-93, non ha lasciato particolari strascichi nei cuori degli affezionati alle sorti dei colori gialloblù. Come spesso accade, quanto di buono fatto ammirare nel campionato argentino, non sempre viene applicato con i medesimi risultati nel campionato di Serie A. E infatti è quel che accade al centrocampista offensivo che in patria ha già vestito le maglie di Boca Juniors e River Plate, compiendo un salto mortale che, all’età di neanche ventidue anni, non si effettua con particolare semplicità. Le sue attitudini convinsero la famiglia Tanzi ad avallarne l’acquisto insieme a Faustino Asprilla. Tuttavia, il ricordo lasciato da Berti in quel di Collecchio si condensa in quattro comparsate durante il campionato – chiuso com’era dalla concorrenza di Osio e Pizzi – ed una foltissima chioma che, non stentiamo a crederlo, fece la fortuna di tutta la coiffure del capoluogo emiliano.

5. José Luis CALDERON

José Luis Calderon inseguito da Fabio Viviani durante Vicenza-Napoli del 21 settembre 1997 terminata 1-1

Semmai un giorno vedesse la stampa il “Manuale per partire con il piede sbagliato” alla terza o quarta lezione verrebbe sicuramente citata la frase con cui Calderon si presentò alla prima conferenza stampa di fronte ai tifosi del Napoli: «Sono venuto a Napoli per fare goal: ne farò più di Angelillo. So bene che le prodezze estive servono a poco, ma io mi prenoto anche per il campionato. La panchina? Non mi spaventa, sono troppo sicuro di me». Povero José Luis, se avesse saputo a cosa sarebbe andato incontro. E poveri i tifosi del Napoli che vissero sulla loro pelle lo scotto della peggior stagione mai registrata dal sodalizio partenopeo nella massima serie. Giunse in Italia dopo una stagione sfavillante vissuta con l’Independiente di Menotti – ça va sans dire – con cui si laureò capocannoniere con ventitré reti. Ferlaino, che in passato aveva felicemente pescato dai campionati sudamericani, credette nelle facoltà del numero nove della Seleccion, convocato anche da Passarella per la Copa America del 1997 in Bolivia. La malizia è negli occhi di guarda, ma andando a spulciare i convocati di quell’edizione che si disputò sugli altopiani andini, si nota la cronica assenza dei talenti che giocavano in Europa, in luogo di Christian Bassedas, Martin Posse, Roberto Monserrat e con il dieci sulle spalle del portiere Nacho Gonzalez. Se tanto mi dà tanto… Dopo l’avventura con l’Albiceleste in Bolivia, dunque, Calderon è pronto a giocarsi le sue carte con il Napoli. Insieme ad acquisti del calibro di Prunier e Crasson, il centravanti riesce addirittura a fare peggio dei suoi improbabili compagni di squadra, lasciando esterrefatti supporter ed addetti ai lavori per l’inconsistenza del suo contributo. Bolso, pesante e impacciato, Calderon sembra un pesce fuor d’acqua e i dirigenti partenopei che, nel frattempo, hanno mandato via Mutti e chiamato Mazzone ad un improbabile miracolo, non impiegano granché ad accorgersi dell’abbaglio preso e a rispedire al mittente il numero nove incapace di mandare la palla in rete. Acquistato per 7,5 miliardi, a gennaio ne rientrano soltanto due per una perdita secca di cinque miliardi e mezzo. Nota di colore. Vuole la leggenda che il nostro Carletto, di fronte alle insistenze del patron Ferlaino di schierare Calderon titolare, avesse esclamato: «A presidé, guardi che j’o faccio giocà pe’ davero eh!».