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I nomi o cognomi dei calciatori italiani nostalgicamente più curiosi di sempre

7 Ottobre 2021

Aladino VALOTI

Photo: Allsport UK

Il calcio è nel sangue della famiglia Valoti. Suo figlio Mattia, infatti, è uno dei maggiori acquisti operati durante l’estate appena archiviata dal Monza del Condor Galliani. Ed il giovane Valoti può vantare un gran maestro come papà Aladino, capace di distinguersi ad alti livelli fino alla soglia dei quarant’anni. Cresciuto nelle giovanili dell’Atalanta – guarda un po’ – il centrocampista offensivo non riesce a trovare il suo “nido” definitivo, traslocando puntualmente dopo due o tre anni fra un’esperienza e l’altra. Dopo aver esordito neanche ventenne in Serie A nella Dea dell’astro nascente Donadoni, Aladino cambia tre casacche in altrettanti anni: prima va a Parma dove trova Arrigo Sacchi, poi scende in C1 nella SPAL e nel 1988-89 disputa l’ultimo campionato di Serie B della Sambenedettese. Fra il 1989 e il 1991 resta a Brescia, poi va a Vicenza dove rimane fino al 1994. Si susseguono poi Verona (1994-96) e Piacenza (1996-98): con gli emiliani riesce a tornare in Serie A dopo un’attesa di dieci anni. Scende poi in Toscana per giocare con la Lucchese, poi va a Cosenza, Palermo, Crotone e Martina Franca, prima di chiudere ad un passo dagli -anta nella Nuova Albano.

Angelo TERRACENERE

Bari-Napoli 1991-92: Angelo Terracenere insegue Gianfranco Zola

Sono tre le squadre per le quali Angelo Terracenere ha dato tutto: il Bari, la società che l’ha cresciuto e gli ha consentito di calcare i grandi campi della Serie A e con cui ha disputato oltre trecento partite complessivamente; il Monopoli, che l’ha formato al calcio dei più grandi; il Pescara, con cui ha terminato la carriera da vero e proprio simbolo degli adriatici e per la quale ha dato tutto, soprattutto una caviglia, la cui rottura ha significato la fine della sua carriera. Ha sempre avuto quattro polmoni, Terracenere. Una colonna al centro del campo, a ripulire palloni per lanciare i suoi colleghi in attacco. Giocatori come lui, davvero, non ne fanno più.

Armando CASCIONE

Dopo Aladino Valoti, ecco un altro “papà d’arte”. Suo figlio Emmanuel, infatti, diversi campionati di Serie A con le maglie di Reggina, Pescara e Cesena, collezionando quasi cinquecento presenze complessive. Suo papà, Armando, non giocava a centrocampo, bensì in difesa. Cresciuto nel vivaio del Napoli, Cascione ricopriva il ruolo di libero o stopper. La sua vita è indissolubilmente legata alla città e alla squadra di Catanzaro. Il destino vuole, infatti, che esordisca in Serie A proprio contro i calabresi, quando veste la maglia azzurra del Napoli. Nel 1981-82 partecipa al campionato incredibile delle Aquile del Sud che finiscono settime in Serie A. Un prestito all’Avellino, per far ritorno al Nicola Ceravolo. Con i giallorossi supera le 160 presenze complessive, prima di chiudere con i cugini della Reggina e nelle serie minori della Toscana.

Giorgio MAGNOCAVALLO

Nelle fantasie di chi vi scrive c’è sempre stato un sogno irrealizzato. Quello di vedere Cristiano Ronaldo fronteggiare un mastino come Giorgio Magnocavallo. Il lusitano, probabilmente, sarebbe uscito abbastanza malconcio dal duello con il difensore di Chieuti, forgiato letteralmente nell’acciaio. Cresce nelle giovanili dell’Inter, ma trova la sua dimensione nell’Atalanta, con cui vive da protagonista il salto dalla Serie C1 alla A in pochi anni. All’Atleti Azzurri d’Italia rimane fino al 1985, quando a chiamarlo è addirittura Long John Chinaglia che lo vuole nella sua Lazio per tornare in Serie A. Tuttavia, l’anno successivo Giorgio dovrà sudare le proverbiali sette camicie per portare alla salvezza i biancocelesti nella celebre stagione del -9 in classifica (quando una vittoria valeva soltanto due punti). Chiude la carriera fra i professionisti con il Formia, prima di togliersi la grande soddisfazione di portare il Barletta in Serie B nell’estate del 1988.

Agatino CUTTONE

Cesena-Roma 1988-89: Agatino Cuttone cerca di trattenere il tedesco della Roma, Rudy Völler

Nasce come centrocampista nelle giovanili del Torino e con la maglia granata debutta in Serie A all’età di vent’anni. Pian piano viene arretrato sempre di più e nel ruolo di difensore trova la sua collocazione ideale. Dopo l’esordio fra i professionisti con la Reggina, mister Rabitti lo fa esordire alla seconda giornata in quel di Catanzaro. Due annate al Comunale e Agatino nel 1982 passa proprio alle Aquile del Sud che chiudono la stagione in fondo alla classifica. Nel 1983 avviene il passaggio al Cesena e dei romagnoli diventa colonna e capitano, segnando la rete decisiva nello spareggio con il Lecce che nel 1987 vale la promozione in Serie A. Resta al Dino Manuzzi fino al 1991, quando passa al Perugia prima ed al Baracca Lugo poi per chiudere la carriera a soli trentatré anni.

Evaristo BECCALOSSI

Inter-Juventus 1982-83: Evaristo Beccalossi sfugge alla marcatura di Cesare Prandelli sotto gli occhi di Roberto Bettega

Gianni Brera lo soprannominò Dribblossi, per quella sua ostinata, cocciuta, innata propensione al dribbling e alla veronica, al ricamo. Evaristo Beccalossi, con quel nome, non poteva non esser profeta di bel calcio e intorno alla sua maglia numero dieci dipendevano gli equilibri dell’Inter, la sua Inter. L’amore di una vita. Qualche compagno di squadra, per “inquadrare” la sua propensione all’indolenza o alla corsa in campo, dichiarò: «Ogni domenica, poco dopo il calcio d’inizio, scoprivamo se avremmo giocato in dieci o in dodici». Il suo carattere, poi, in campo, faceva il resto: iracondo e allegro, sbruffone e sodale. È stato un continuo pendolo d’emozioni che, comunque, i tifosi dell’Inter ricordano con un sorriso. Questa sua propensione, tuttavia, gli è stata fatale in ottica Nazionale: questi suoi “limiti” caratteriali gli preclusero le porte dell’Azzurro, nonostante fosse uno dei pochi numeri dieci capaci di tener testa ai fenomeni giunti dall’estero. Ha fatto la storia il suo dualismo con Hansi Muller che si risolse con un doppio licenziamento da parte del neo-presidente Pellegrini: Evaristo andò alla Sampdoria in cambio di Brady, il tedesco prese casa sul lago di Como. E dopo l’esperienza dimenticabile con la Samp, il lento declino fra Monza, Brescia (un ritorno a casa, il suo), Barletta, Pordenone e Breno.

Aldo CANTARUTTI

Verona-Atalanta 1984-85: Aldo Cantarutti a fine partita. Sullo sfondo si riconosce Silvano Fontolan

In molti avranno visto il suo nome comparire alle spalle di Lino Banfi nella celebre pellicola “Al Bar dello Sport”, quando una sua doppietta al Comunale contro la Juventus regalò un incredibile tredici al Totocalcio allo sfortunato Lino. Seppur quella sua impresa sia frutto della fantasia, Aldo di gol ne ha fatti tanti davvero, in un’epoca in cui non era facile come adesso eludere “le cure” degli arcigni difensori con cui si faceva a spallate in duelli rusticani, ormai dimenticati nel tempo. La sua epoca d’oro attraversa tutti gli anni ’80: prima è il centravanti del primo Pisa di Romeo Anconetani, segnando diciotto reti in due anni, poi passa al Catania con cui conquista la Serie A insieme al compagno di reparto Ennio Mastalli. Nonostante la retrocessione in Serie B degli etnei, resta nella massima categoria per difendere i colori dell’Atalanta. Con gli orobici rimane per quattro stagioni, rivelandosi anche ottimo cecchino nella cavalcata che porta gli orobici alle semifinali di Coppa delle Coppe nonostante militino fra i cadetti. Passa poi nel 1988 ai cugini del Brescia, per poi lasciare le Rondinelle dopo pochi mesi e chiudere la carriera a trentaquattro anni, nel 1990, con la maglia del Lanerossi Vicenza in Serie C1.

di Alberto Querin e Nando Di Giovanni