Privacy Policy Agostino Di Bartolomei: la storia del capitano silenzioso

La storia di Ago Di Bartolomei

8 Aprile 2020

Il libro che ripercorre in poche pagine dense di emozioni la vita di Agostino Di Bartolomei l’ho lasciato nella polverosa mensola della piccola casa al mare, a Lavinio, località sulla costa tirrenica a 50 km a sud di Roma, a ridosso della più nota Anzio. Non è stata una dimenticanza, è stato un gesto del subconscio. Perché Roma dai tempi di “Ago” è cambiata radicalmente, mentre a Lavinio, dove il giovanissimo Agostino trascorreva quella che una volta si chiamava “villeggiatura” con la propria famiglia, certi angoli del paese sembrano essere rimasti fermi a 50 anni fa. Ci sono ancora i campi di pozzolana, ribollenti di calura e polvere, dove Di Bartolomei passava le estati. Sul litorale caro ad Enea c’è ancora la fortificazione nota ai locali come Tor Caldara e la spiaggia sottostante dove Di Bartolomei inseguiva un pallone, scontrandosi non di rado con un coetaneo della vicina Nettuno, che praticava il baseball ma era assai più forte con un pallone di cuoio tra i piedi. Squadre rigorosamente diverse per i due ragazzi, perché, si sa, le regole del calcio di strada (o sulla sabbia) non ammettono eccezioni: i più forti vanno divisi. Agostino da una parte e Bruno dall’altra, sognando entrambi di essere un giorno il capitano della propria squadra del cuore, la Roma. E così sarà, con Agostino a portare la fascia bianca al braccio dal 1980 al 1984 e Bruno il suo fidato vice. Non basterà certo un litigio sul prato dell’Olimpico nell’inverno del 1985, con “Diba” vestito di una maglia che non sentiva sua, a rovinare la loro amicizia negli anni a venire. Ma che ci fa il Capitano della Roma, quello con la “C” maiuscola, con la maglia del Milan? Come è possibile che uno dei simboli sacri della tradizione autoctona giallorossa, (forse) secondo solo a Totti, indossi la maglia di una delle rivali del Nord? Di Bartolomei, proprio lui che diceva che “esistono i tifosi di calcio…e poi ci sono i tifosi della Roma”, palesando la visceralità di un sentimento pagano che nella capitale si eleva a religione. Per provare a capire, devo partire dall’inizio.

Agostino Di Bartolomei, classe 1955, cresce nella periferia romana di Tor Marancia e tira i primi calci in una piccola società, l’OMI, dove gli osservatori della lupa lo notano per inserirlo nelle giovanili giallorosse, con la quale vince due campionati primavera. L’esordio in prima squadra arriva appena 18enne il 22 aprile 1973. Antonio Trebiciani, tecnico della primavera subentrato ad Helenio Herrera sulla panchina giallorossa, conosce bene le qualità del giovane Di Bartolomei e lo getta nella mischia a San Siro, contro l’Inter. L’anno dopo, alla prima giornata contro il Bologna, inizia quel feeling tra Di Bartolomei e il gol che non finirà mai, neanche nella parabola discendente della sua carriera. Dal ’73 al 75’ Agostino, fa la spola tra la primavera e la prima squadra, dove colleziona 23 presenze. Poi è costretto, per la prima volta, a lasciare Roma. Agostino accetta, perché sa che tornerà più forte di prima. I gradi di titolare con la Lanerossi Vicenza, in B, ne rinforzeranno le già eccelse qualità tecniche, aggiungendo convinzione ai suoi mezzi.

Quando fa ritorno a casa, Di Bartolomei è un centrocampista completo e pronto a diventare il pilastro della Roma. Fronte alta, pulizia nei passaggi, visione di gioco a 360 gradi e qualità balistiche fuori dal comune lo rendono un regista di straordinaria presenza a cui manca solo una dote: il cambio di passo. Nei 4 anni che seguono al ritorno da Vicenza, Agostino è praticamente sempre in campo. E’ solo questione di tempo, e la fascia di Santarini scivolerà sul suo braccio. Agostino ha la schiena dritta, è un esempio di lealtà e correttezza dentro il campo, dove sa rapportarsi con compagni, avversari e soprattutto con gli arbitri ai quali si rivolge sempre con atteggiamenti rispettosi, ovvero con le mani dietro la schiena rimanendo a debita distanza. Ed è un esempio anche fuori dal campo dove sa essere, in modo quasi antesignano, grande comunicatore e, quando serve, fine psicologo. Di fronte ai microfoni è sempre lucido, misurato, ma allo stesso tempo sincero e privo di quella finta diplomazia e degli stereotipi che iniziano a popolare i media sportivi. Ago legge libri e quotidiani, si informa, approfondisce, addirittura dipinge e compone poesie, è un atleta nel fisico e nella mente. Non è solo un signor giocatore, ma un giocatore-signore che precorre di 30 anni il Mourinho pensiero: “chi sa solo di calcio non sa niente di calcio”. E così nel 1980, è lui il Capitano eletto dalla squadra che l’ingegnere Dino Viola sta plasmando per vendicare gli anni della “Rometta” del presidente Anzalone. Il tecnico prescelto è Nils Liedholm, un cavallo di ritorno. La ragnatela del Barone, che prevede un possesso di palla dominante volto a liberare gli attaccanti, è perfetta per le caratteristiche di Di Bartolomei, che nel frattempo da fenomeno sportivo è assurto, con la fascia al braccio, ad eroe popolare della metà giallorossa della città. L’arrivo dall’Inter del centrocampista Prohaska rappresenta l’inizio, forse inconsapevole, della svolta. L’austriaco e il romano costituiscono una coppia di centrocampo troppo compassata, ecco quindi che l’allenatore retrocede, nello scetticismo generale, il Capitano sulla linea difensiva affiancandogli “il Russo”, il rapidissimo Vierchowod. Ora la Roma ha una fonte di gioco in più ed inoltre il numero 10 giallorosso è libero di inserirsi dalle retrovie per trovare, spesso con esiti positivi, la bomba dalla distanza. Bearzot non lo considera per l’azzurro, eppure il rendimento di Di Bartolomei è eccelso. Ne trae giovamento la Roma. Agostino-gol è profeta in patria, dopo due Coppe Italia, arriva nel campionato 82-83 il tricolore atteso per 41 anni.

Roma Coppa dei Campioni

L’anno dopo la Roma sfiora la vittoria in Coppa dei Campioni; l’amaro epilogo di quel 30 maggio 1984 è noto e non serve ripeterlo. Conta invece dire che prima ancora della finale dell’Olimpico, Liedholm è già destinato alla panchina del Milan e per la Roma è in arrivo un altro svedese, Sven Goran Eriksson, il quale però, a differenza del suo connazionale, pone la velocità e l’atletismo tra le componenti fondanti il proprio gioco. Di Bartolomei capisce subito di non essere al centro del progetto e nel frattempo sembrano essersi incrinati i rapporti con la società e con Falcao, reo di non aver calciato il rigore contro il Liverpool. La successiva finale di Coppa Italia, che vede la Roma superare il Verona, è l’ultimo omaggio del numero dieci giallorosso alla sua Roma che non  riabbraccerà più. Di Bartolomei raggiungerà il suo mentore Liedholm a Milano. “Ti hanno tolto la Roma, ma non la tua Curva”, è il saluto dei tifosi sugli spalti. Gli stessi tifosi che qualche mese dopo non gli perdoneranno la sua esultanza rabbiosa con la maglia rossonera: il 14 ottobre 1984 la Roma esce sconfitta da San Siro per 2-1 ed è proprio Di Bartolomei ad aprire marcature.

Agostino Di Bartolomei al Milan

Per molti diventa il traditore, ma l’unico ad essere tradito è stato lui. Nel gesto di Agostino c’è tutta la sua complessa personalità, da Capitano della Roma non ha mai cercato la polemica, neanche durante la cessione forzata, ma quel gol e l’urlo che lo segue sono la liberazione di un sentimento di rivalsa covato in silenzio, rappresentano il riscatto verso chi lo ha scaricato sfilandogli quella maglia che era per lui una seconda pelle. A Roma era un Re, a Milano solo un grande giocatore che serve con professionalità la causa rossonera e questo Di Bartolomei lo sa. Nel girone di ritorno, a Febbraio, l’accoglienza all’Olimpico nei suoi confronti è fredda. Ci sono i fiori gialli e rossi per Liedholm, per lui nulla. Anzi no. Durante la gara ci sono i pugni di Ciccio Graziani che accusa il suo ex Capitano di un’entrata troppo dura su Conti. La carriera di Ago scivola via con le luci dei riflettori che sembrano spegnersi lentamente su di lui: 3 anni a Milano, senza trofei, poi una salvezza ottenuta in A col Cesena nell’87-88.

Agostino Di Bartolomei con la maglia del Cesena

Infine la Salernitana, in C1, per stare vicino alla famiglia che vive a Castellabate. Dopo un’annata controversa, nell’89-90, Di Bartolomei guida i granata ad una storica promozione in Serie B siglando il gol decisivo nella penultima giornata a Brindisi. Con tono inflessibile, come il suo carattere, durante i festeggiamenti annuncia il ritiro ai microfoni di un cronista. E probabilmente è proprio questo il momento in cui entra nel tunnel di cui non riuscirà a vedere l’uscita. Aspetta per anni una chiamata da Trigoria che non arriverà mai; eppure Agostino, uomo eclettico e di prospettiva, ha mille idee e mille progetti. Frequenta il corso allenatori di Coverciano, parla di Sport come materia da inserire nel ciclo dell’istruzione obbligatoria e sta lavorando da tempo al progetto di una scuola calcio dove educare, non solo sportivamente, i ragazzi e che realizzerà parzialmente a Castellabate: “A me piacerebbe che i ragazzini imparassero da piccoli ad amare il calcio, ma non prendendo a modello alcuni dei miei capricciosi colleghi”. Di Bartolomei è come sempre autentico e quindi sempre più distante da un calcio che sta andando in un’altra direzione. “Non sono né superbo né timido ma sono solo frenato dal timore di sembrare invadente o esibizionista. Parlo poco perché è meglio che parlare troppo e perché c’è sempre il rischio che quello che hai da dire non interessi nessuno” aveva dichiarato nel 1979 a Sandro Ciotti durante un’intervista. E non poteva essere altrimenti per uno che di lì a poco si sarebbe guadagnato la stima e il rispetto di campioni come Pruzzo, Falcao e Conti solamente con i silenzi e i giusti comportamenti, senza urla e atteggiamenti sopra le righe. Di Bartolomei non ha mai avuto la presunzione di voler essere un modello per gli altri, anche se lo è stato e lo sarebbe stato per i capitani di domani, da Giannini fino a Florenzi, passando per Totti e De Rossi. Purtroppo non lo saprà mai. Quel maledetto 30 maggio del 1994, 10 anni esatti dopo la tragedia sportiva arriva la tragedia umana. Agostino forse non sopporta più il peso dell’oblio a cui il calcio, e soprattutto la sua Roma, lo avevano condannato. Anzi, ti avevano condannato, senza comprendere appieno la tua grandezza. Scusa Agostino se ti do del “tu” e chiedo scusa ai lettori, ma la fede calcistica prevale in questo epilogo sul codice deontologico e sulla volontà editoriale.

Aostino Di Bartolomei con la maglia della Roma

Un colpo solo al cuore e da allora tutti ti rimpiangono, Agostino. Ha ragione Venditti quando cantando di te ha scritto: “questo è un mondo coglione, piange il Campione, quando non serve più”. In quei 10 anni che cosa hanno fatto Roma, la Roma e suoi tifosi per non dimenticarti? Sicuramente non abbastanza, o forse poco e niente. A te la gloria è stata riservata postuma: la tua storia silenziosa finita con quel botto improvviso ha ispirato registi e cantautori, a te sono intitolate strade e attribuiti impianti sportivi; ancora oggi la capitale è piena di murales che celebrano te, il Campione antidivo, l’Uomo vero, il Capitano per antonomasia. Quello che tutti vorremmo accanto su un campo di calcio. Quello che non ha paura di mettere il pallone sul dischetto per tirare il rigore più importante della vita. Al Tufello, resiste la scritta “Ago tira la bomba”, ovunque tu sia.

 Andrea Tomassi

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