Thomas Gravesen: un galactico per caso
11 Marzo 2020
La filosofia ha mutuato nei secoli un concetto che l’iconografia ha sintetizzato in una semplice immagine. Forse una delle più profonde e cariche di significato: lo Yin e lo Yang. Secondo le antiche dottrine orientali, essi sono due opposti necessari che si completano a vicenda, dove uno dipende dall’altro e insieme creano un equilibrio assoluto.
Guardando Thomas Gravesen, mastino danese del centrocampo, la trasposizione sul suo personaggio è quasi obbligatoria. I compagni di squadra, per lo meno la maggior parte, lo descrivono come un calciatore concentrato, serio, dedito al lavoro ma anche bizzarro e divertente: il classico compagno di camerata. Eppure, la fama che lo ha accompagnato durante la sua carriera, etichettandolo, lo ha sempre voluto come un folle, irruente interprete del gioco del calcio. Un cortocircuito fra uomo gioviale ed atleta prorompente, ai limiti dell’aggressività che lui, un giorno, descrisse così: «All’esterno sono un tipo completamente diverso, molto più calmo».
Gravesen cresce in quel di Vejle, sulla penisola dello Jutland, dinanzi all’omonimo fiordo. Il vento del Nord è gelido, spazza via tutto ed increspa le onde. Inevitabile venir su con una sorta di inquietudine. È la nazione che ha tirato su giocatori come Stig Tøfting e Christian Poulsen. Non propriamente degli stinchi di santo. Thomas è della stessa pasta, ma riesce ad abbinare anche attitudini tattiche ed atletiche che colpiscono gli osservatori dell’Amburgo che lo chiamano nel capoluogo anseatico per vestire la maglia dell’HSV. Si distingue per il carattere indomito, tant’è che nel 2000 lo chiama l’Everton dopo l’Europeo in Belgio e Olanda. Con la maglia dei Toffees lega tantissimo con lo scozzese McFadden che, in numerose interviste, lo descrive così: «Thomas non aveva filtri, era spaventoso, pazzesco. Da solo era molto pacato, se però era in gruppo era meglio evitarlo. È stata la persona più iperattiva che io abbia mai conosciuto». Diventa addirittura il pupillo di Mike Tyson che lo vede disimpegnarsi su un campo di calcio a Copenaghen durante una sfida contro l’Islanda nel 2002: il campione dei pesi massimi gli chiede la maglia al termine della partita, dopo esser rimasto colpito dal suo atteggiamento.
Diventa un idolo di Goodison Park che lo osanna per le sue prestazioni da Highlander. Ma quando ci si è appena calati nel 2005 ed il suo contratto con gli inglesi sta per scadere, viene contattato dal suo agente John Sivebaek – ex giocatore del Pescara e del Manchester United – mentre è al cinema con il fratello: «Cosa ne pensi di Madrid?» gli chiede. Lo stesso Gravesen racconta l’episodio: «Io credevo che parlasse dell’Atletico Madrid, così gli ho risposto “Sto bene anche all’Everton”. Ma poi ecco la sorpresa: mi ha spiegato che si trattava del Real Madrid».
Piuttosto che perderlo gratis al termine della stagione, la società avalla la cessione ai Blancos per 3,5 milioni di euro. Incredibile. Thomas è un merengue. In molti si saranno chiesti quali possibilità avrebbe mai avuto il danese in una squadra che rappresenta l’accademia del bel calcio, assurta al grado di Galactica, tanti sono i top-player nella rosa appena affidata al tecnico Vanderlei Luxemburgo: Salgado, Roberto Carlos, Zidane, Figo, Ronaldo, Owen, Beckham e Samuel giusto per citarne alcuni. C’è posto per un vichingo come lui? In molti credono di no. E invece…
Parla per lui l’impegno in allenamento e la duttilità che dimostra, recependo le indicazioni del tecnico brasiliano. Gioca davanti alla difesa nel ruolo del classico “mediano di rottura” con la consegna di far legna, recuperar palloni e cederla ai giocolieri lì davanti a lui. Vincendo tutte le reticenze, si conquista pian piano un ruolo sempre più importante, fungendo da vera e propria barra d’equilibrio per un collettivo sbilanciato naturalmente in attacco. «Penso molto a quello che faccio. Voglio essere il migliore, e serve un sacco di energia». Lui è sempre lì, al centro, lungo la spina dorsale della squadra.
Sua è la celebre Gravesinha, la finta di effettuare un tackle in slittamento che poi si rivela una semplice ed innocua scivolata a vuoto, utile per disorientare l’avversario e recuperare il pallone. Viene provata e riprovata in allenamento a Valdebebas, centro sportivo appena inaugurato dalla Casa Blanca. Sono proprio le parole di Roberto Carlos che ne descrivono il modus operandi durante le sessioni preparatorie: «Il più matto che ho incontrato nel calcio. Viveva a un ritmo accelerato. Ti faceva dei falli atroci e poi si metteva a ridere. Però una bravissima persona».
Il suo impiego subisce una flessione verso il termine del primo campionato, ma il subentro di Juan Ramon Lopez Caro porta di nuovo Gravesen nell’undici di partenza dopo aver metabolizzato l’esonero di Luxemburgo. È indispensabile. Impossibile prescindere dal suo impiego per evitare di capitolare o di lasciare la difesa alla mercé degli attacchi avversari. È una pedina spinta dalla lucida follia agonistica che lo ha sempre contraddistinto. Il carattere è quel che è. Talvolta finisce tutto lì, con una risata. Altre volte diversamente.
Come in occasione di uno scontro durante l’allenamento con Robinho: il brasiliano risponde con le mani ad una scivolata non ritenuta congrua all’agonismo da mettere in campo e si scatena una vera e propria rissa, sedata con l’intervento dei compagni di squadra. Inevitabile la frattura e a ricomporla non riesce neanche Don Fabio Capello, giunto alla guida del Real da pochissimo tempo. Il tecnico di Pieris, così, decide di buttar giù dalla torre proprio Gravesen, danese dal sangue caliente: non piace il suo approccio, seppur l’ex tecnico di Milan e Juventus ne riconosca l’utilità tattica all’interno dello scacchiere madridista.
Andrà poi al Celtic per poi tornare all’amato Everton, dove chiuderà la carriera a soli trentatré anni. Con la consapevolezza di aver giocato finché lo avrebbe voluto, finché si sarebbe divertito. Un suo amico, in seguito, racconta dopo la sua esperienza di Madrid: «Thomas sentiva che non gli era consentito di essere sé stesso». E allora basta. Thomas toglie il disturbo e saluta quel mondo che troppo spesso lo ha definito “orco”, “scaricatore di porto” o “oste irlandese”. Ben sapendo, però, che senza quell’oste irlandese, il Real Madrid non sarebbe stato così Real.
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