Vi spieghiamo perché oggi è la giornata mondiale dei “raccomandati” del calcio
13 Giugno 2020
“Uno su mille ce la fa. Ma quant’è dura la salita…”. Le parole di Gianni Morandi sono facilmente applicabili al mondo del calcio, dove in tanti partono col sogno di diventare calciatori, di calcare i massimi palcoscenici, di poter far diventare un lavoro quello che da piccoli è il passatempo preferito. E qualcuno ci riesce anche. Ma la maggioranza si scontra con la realtà: ci si accorge cammin facendo che i piedi non sono educati, ci si scontra con qualche infortunio, non si prende il treno giusto o si viene scartati. Normale, no? Ma c’è un’ultima categoria, cui il pallone italico non si sottrae: quella dei “raccomandati”.
Per loro la salita che cantava il buon Gianni è meno irta di difficoltà ed il treno giusto magari passa nel momento in cui sei pronto a salire: magari puoi farlo in prima classe anziché nel vano carburante, oppure mangiare ostriche e champagne al posto di un panino. E arrivare in serie A, la meta che tutti sognano.
Lungi dal dare giudizi, ma prendiamo il caso di Kolubah Roberts, per tutti Zizì. Arriva a Milano, sponda rossonera, nell’estate 1997. Segni particolari: è nato a Monrovia, capitale della Liberia, casualmente la medesima città natale di George Weah, che nel 1996 ha guidato il Milan allo scudetto con undici gol e che un anno prima del trionfo tricolore ha sollevato al cielo il Pallone d’Oro. E che ha messo una buona parola con la dirigenza, senza nemmeno vergognarsene: «Sono felice di averlo portato in Italia» dice Weah, con Roberts che rilancia: «Non mi pesa sapere di essere qui grazie a lui». Già, perché Zizì, nonostante la giovane età, ha impressionato in patria, conducendo il Junior Professional al titolo. Ma il Milan è tutt’altra cosa.
In panchina, dopo un’annata disastrosa, torna Fabio Capello, uno che non fa prigionieri, e che dopo il precampionato fa le sue scelte: morale, Zizì fa le valigie e si sposta qualche chilometro più a Est, in Brianza, in un Monza ben lieto di accoglierlo e che già in passato ha dato spazio a giovani provenienti da Milanello e non ancora pronti per la prima squadra. Roberts ha diciotto anni e si ritrova in B, in una squadra sulla cui panchina si alternano tecnici iconici come Luigi Radice, Bruno Bolchi e Pierluigi Frosio. «È chiaro che con giocatori del calibro di Kluivert e Weah spazi non ce ne sarebbero stati ed il passaggio al Monza mi apre nuove prospettive. Poi qui siamo a pochi chilometri da Milano e Weah mi ha garantito che farà di tutto per venire a vedermi e a incitarmi».
Ne avrebbe bisogno, perché i ritardi agli allenamenti, di cui a volte non ricorda nemmeno l’orario, non sono consoni ad un professionista e qualcuno che gli suoni la sveglia non farebbe male. Il potenziale, tuttavia, sembra esserci: il 14 settembre, nel match del Brianteo con il Venezia, entra al posto di Marcello Campolonghi e nel finale firma il gol partita. Particolare non secondario: si dice che un dirigente sia dovuto tornare in hotel a prenderlo perché si era addormentato in camera dopo il pranzo e non era sceso al ritrovo pre-gara. Sugli spalti dell’impianto brianzolo si esulta: «Con l’amico di Weah ce ne andremo in Serie A».
Ma la realtà è un’altra: dopo ventisette gettoni e cinque reti, che valgono un anonimo quindicesimo posto, ecco un altro prestito, sempre in B, al Ravenna. Colpo di scena: Sergio Santarini si ricorda che Roberts, in Nazionale, lasciava spazio al ben più famoso Weah e giocava in difesa. «Ha forza fisica, destro e sinistro, stacco di testa. Sull’uomo, peraltro, è implacabile. Ho deciso di lanciarlo in un nuovo ruolo ed i primi risultati sono incoraggianti» spiega il tecnico riminese, quando afferma di volerlo schierare nel reparto arretrato. Di difensori se ne intende: quando era alla Samp ha contribuito alla trasformazione da esterno a difensore centrale di un tale Sinisa Mihajlovic. Ma l’esperimento non funziona: c’è spazio per diciotto presenze ed una rete nel blitz per 4-2 sul Napoli, con un sinistro terrificante dalla distanza, prima di concludere l’esperienza italica e varcare il confine per un’anonima esperienza al Bellinzona. A quel punto tutto cambia: già, perché all’inizio del nuovo millennio Weah lascia il Milan per approdare in Premier League e il “protettorato” decade, con Zizì che fa le valigie verso la Grecia e poi verso la MLS, facendo parlare più per qualche guaio extra-campo per le sue prestazioni sul rettangolo verde.
Due anni dopo Weah, a Milanello sbarca Clarence Seedorf. I cugini nerazzurri stanno ancora mordendosi le mani, visto che l’olandese arriva in cambio di Francesco Coco e sarà il perno del centrocampo da sogno con cui Carlo Ancelotti dominerà, in Italia ed in Europa. Se parliamo di lui in questo capitolo, tuttavia, non è certo per le sue indiscutibili qualità tecniche, quanto per un suo prediletto: Harvey Esajas.
I due si sono conosciuti nel florido vivaio dell’Ajax: Clarence porta le treccine ed è un giovane talento di belle speranze; Harvey ha due anni in più e fa della progressione sulla fascia la sua arma migliore. Saluta i Lancieri per passare al Feyenoord e, curiosità, segna il classico gol dell’ex nel primo match da avversario: solo un’illusione, tuttavia, perché nel giro di qualche stagione, e con solo una manciata di presenze alle spalle, Esajas appende le scarpe al fatidico chiodo, deluso da una parabola che sembrava proiettata ai vertici e che ha terminato la propria corsa nel baratro.
Inizia ad ingrassare, supera velocemente il quintale e cerca, come qualsiasi comune mortale, un lavoro: fa il cuoco ed il lavapiatti, si fa male ad una caviglia ed il pallone è solo un lontano ricordo ma… gli amici si vedono nel momento del bisogno. Già, perché Seedorf si ricorda di lui e, dopo averlo proposto a Sandro Mazzola per il suo Torino, convince Adriano Galliani a portarlo in rossonero, dandogli una chance di riscatto. «Nell’Ajax era più forte di me, gli dia questa opportunità» dice il numero 20 al Condor, che lo asseconda. Seguito da Milan Lab come un vero professionista, Esajas scende dagli oltre 110 ad 85 kg e torna a riassaporare, dopo un regime quasi militaresco durato quasi un anno, l’aria del vero calcio. Nel gennaio 2005 il debutto: a San Siro si gioca il ritorno degli ottavi di Coppa Italia col Palermo, il risultato è in ghiaccio e, sostituendo Massimo Ambrosini, c’è spazio anche per lui. In campo prova una sgroppata sulla fascia come ai bei tempi, e alla fine, nello spogliatoio, piange come un bambino, emozionato per aver rivissuto, anche solo per pochi istanti, emozioni che non provava da tempo. «Non ho intenzione di fermarmi qui» dice, ma in realtà le cose non vanno come sperato: Legnano, Lecco e poi un nuovo ritiro, stavolta definitivo. D’altronde i sogni sono belli, ma durano poco. A quel punto non resta che tornare in patria, ad allenare i ragazzini, e a raccontare loro la Scala del calcio e quei tre minuti che gli fecero toccare nuovamente il cielo con un dito.
E quindi se ci riflettete, non è pazzesco che entrambi questi “raccomandati” rossoneri siano nati il 13 giugno, esattamente nello stesso giorno?
di Damiano Reverberi
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